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Perché ha funzionato la mobilitazione sul buco dell’ozono ma non quella sul clima

Articolo di Massimiliano Iervolino pubblicato su Il Dubbio il 13 gennaio 2023

Gli sforzi della comunità internazionale contro il buco dell’ozono, da una parte, e i mutamenti climatici, dall’altra, raccontano due storie diverse.

Se tutto va bene, l’ozono dovrebbe riformarsi fra un paio di decenni, cioè nel 2040. Solo dove il buco era più grande, cioè al Polo Nord e Polo Sud, ci vorrà più tempo, con il ripristino dello strato di ozono previsto, rispettivamente, nel 2045 e 2066.

Circa il clima, invece, siamo in ritardo, il tempo per scongiurare gli effetti peggiori del surriscaldamento dell’atmosfera sta rapidamente finendo – circa nove anni ai ritmi di emissione del 2021.

Eppure, i protagonisti di entrambe le storie sono gli stessi: la comunità internazionale, circa 200 governi, le ONG e la società civile. Perché le due storie stanno prendendo traiettorie così diverse allora? L’analisi del perché deve partire dal fatto che i problemi sul tavolo sono di ordini di grandezza diversi.

Se le due storie fossero dei noir, nel caso dell’ozono, la trama riguarderebbe una singola “vittima”, cioè una singola componente dell’atmosfera, minacciata da una singola categoria di “cattivi”, i cloro fluoro carburi (CFC) emessi da bombolette spray, solventi, ecc., riconducibili a una categoria circoscritta di produttori e utilizzatori, con una serie circoscritta di effetti negativi, come i tumori alla pelle. Nel caso del clima, le vittime sono innumerevoli dinamiche climatiche, ambientali, sociali, economiche – reciprocamente intrecciate – minacciate da altrettanto innumerevoli categorie di “attentatori”, di cui tutti siamo parte attiva o complici, con altrettanto innumerevoli effetti negativi. Il diverso grado di complessità dei due problemi non può essere sottovalutato.

Premesso questo, una differenza è quella degli strumenti normativi e sanzionatori introdotti dalla Convenzione di Montreal sulla lotta all’ozono, da un lato, e dalle Conferenze delle Parti (COP) delle Nazioni Unite sulla lotta ai mutamenti climatici, dall’altro.

La Convenzione di Montreal del 1987 impegna i Paesi con obblighi più chiari e stringenti rispetto alle COP. E fornisce all’Onu un mandato più cogente per far rispettare tali obblighi. L’Accordo di Parigi del 2015 non conferisce all’ONU il potere di farlo rispettare. Mira soprattutto a influenzare il comportamento con un approccio “piscologico”. La strategia è usare la pressione sociale, la persuasione, facendo leva sulla trasparenza, in modo che tutti possano vedere chi fa cosa, con l’assunto che nessuno voglia fare brutta figura e che si instauri un meccanismo virtuoso di reciproco condizionamento. Il Protocollo di Montreal ha funzionato perché ha saputo proporsi come arbitro severo con strumenti sanzionatori concreti. Le COP sono un genitore indulgente armato di nobili ideali.

Ma il Protocollo di Montreal ha funzionato anche per una serie di altre ragioni.

In primis, l’opinione pubblica una trentina di anni fa era più compatta e consapevole. Oggi, troppo spesso si sente ancora mettere in discussione la realtà dei cambiamenti climatici. La gente comprendeva il pericolo dei CFC. Tale maggiore compattezza della comunità nazionale e internazionale e il loro sostegno al cambiamento hanno spinto a loro volta anche l’industria a fare di più e più in fretta per cambiare, sostituendo i CFC con sostanze meno dannose.

Anche gli “scienziati attivisti” sono stati importanti, in una fase in cui i titoli, le competenze, la scienza mantenevano un prestigio e una presa sull’opinione pubblica in parte venuta meno ora. I pericoli dei CFC sono stati comunicati con forza, con messaggi accessibili che hanno permesso a tutti di capire la minaccia e il rimedio.

Al contrario, oggi, si fa ancora fatica a spiegare in parole semplici cosa comprovi il fatto che l’aumento delle temperature sia causato dall’azione umana. Sul lato pratico, è anche oggettivamente molto più difficile e oneroso sostituire un auto, un sistema di riscaldamento, una infrastruttura energetica che non un singolo componente chimico in una serie limitata di prodotti.

Il buco dell’ozono è in via di risoluzione perché più facile da affrontare sul lato della domanda, da parte di singoli individui disposti a cambiare il loro comportamento senza grossi sacrifici, e sul lato dell’offerta da parte di industrie che hanno avuto più incentivi a cambiare, grazie anche a politiche internazionali e governative più severe e inderogabili. Per raggiungere un livello di obbligatorietà dell’azione climatica simile si dovrebbero rendere più rigorose e funzionali non solo le regole degli accordi internazionali, ma anche le basi umane e politiche su cui tali obblighi condivisi poggiano.

Insomma, ognuno ha gli accordi internazionali che si merita.

Sono infine basilari istituzioni amministrativamente solide, dotate delle risorse necessarie. Questo riguarda sia il piccolo Comune dell’Appennino, il cui ufficio tecnico non ha le risorse per processare rapidamente l’autorizzazione di un parco fotovoltaico, sia le Nazioni Unite, se non sono autorizzate a controlli e sanzioni puntuali sui massimi sistemi. Il Protocollo di Montreal ha funzionato anche perché è stato sostenuto da programmi di sviluppo delle capacità, il “capacity building”, con cui si sono aiutati i Paesi ad attuare e rendere credibili le loro politiche. Sebbene girino molti soldi attorno al cambiamento climatico, solo una piccolissima parte è destinata al potenziamento delle capacità amministrative di chi dovrebbe prevenirlo.

Ricordiamoci di questi aspetti quando confrontiamo l’eredità di Montreal con quella di Parigi, e traiamone le opportune conseguenze.